Amano da morire essere cullati, abbracciati e coccolati dalla mamma e dal papà. Dormono come ghiri quando li si tiene in braccio, ma appena vengono appoggiati, anche con la massima cura e delicatezza, su un comodo materasso si svegliano e piangono come pazzi.
Ovviamente sto parlando dei bebè.
Vi riconoscete in queste scene? Chi ha avuto un figlio sicuramente sì.
Mio marito diceva che Marco aveva l’altimetro incorporato: se lo teneva in braccio, ma con lui in piedi, dormiva sonni profondi. Ma se si sedeva, il piccoletto si svegliava all’istante.
Momenti indimenticabili, carichi di tenerezza. Ma anche molto molto faticosi.
Ma perché i bambini piccoli vogliono stare sempre in braccio? E soprattutto: è giusto accontentarli o sarebbe meglio lasciarli piangere per un po’, per non viziarli?
Non so voi, ma io non sono mai riuscita a rimanere impassibile di fronte al pianto dei miei figli. Andavo in tilt. Scattavo come una molla al primo urletto e correvo da loro. Sempre.
“Così li vizi”, “Così vorranno stare sempre in braccio”, “Così non si scolleranno più”… Mi sentivo dire.
Ma io ho fatto quello che mi suggeriva l’istinto di neo mamma.
Di questo ci parla oggi la nostra Psicologa Amica, la dottoressa Francesca Santarelli: bimbi in braccio, giusto o no?
Ecco cosa ci dice:
“Si sa, quando un bimbo è proprio piccolo, ci sono tanti aspetti positivi e tanti negativi (come in ogni tappa evolutiva) e molte mamme, mi raccontano che trovano davvero molto faticoso, il fatto che il bebè pianga spesso perché, si capisce, vuole sempre stare in braccia e non le lascia libere neanche di fare la pipì.
Premettiamo che non tutti i cuccioli sono uguali, così come non sono uguali i vissuti emotivi di ogni mamma di fronte al pianto del loro bimbo.
Ma mi sembra corretto, nei confronti di coloro che vivono e mi raccontano questa personale fatica, spiegare loro il perché, i cuccioli di neonati, cercano e hanno bisogno cosi tanto di stare in braccio alla loro mamma.
La ricerca del contatto costante con la figura materna nei primi mesi di vita è del tutto normale ed esprime una predisposizione innata che ha la finalità di proteggere i piccoli dai pericoli e, in questo modo, assicurarne la sopravvivenza.
Proprio osservando il comportamento dei cuccioli di scimmia e dei bambini nel primo anno di vita, lo psicanalista John Bowlby elaborò la prima formulazione della “teoria dell’attaccamento”, con cui si intende appunto il legame che sin dalle prime ore di vita si instaura tra il bebè è la figura che se ne prende cura, descrivendo le caratteristiche essenziali: ricerca e mantenimento della vicinanza fisica; angoscia di separazione; uso di questa figura quale punto di riferimento in cui ritrovare sicurezza e protezione.
Soprattutto dal secondo mese di vita, da quando cioè il bimbo inizia distinguere la figura di attaccamento dalle altre, le richieste di vicinanza e attenzione tendono a diventare più numerose e insistenti.
In particolare, uno dei modi più frequenti di esprimere queste esigenze consiste nel voler stare sempre in braccio alla mamma e nel piangere e lamentarsi tutte le volte che viene adagiato nella culla o comunque mantenuto a distanza.
La consapevolezza che non si tratta di un capriccio bensì della manifestazione di un impulso naturale e comune a tutti i bambini di questa età, dovrebbe aiutare la mamma a reagire con comprensione a questa richiesta senza la preoccupazione di “viziare” il piccolo alle braccia e/o di favorire abitudini difficili in futuro da fargli poi abbandonare.
L’attaccamento nel bambino è fortemente condizionato dal tipo di reazione dell’adulto. È consigliabile mantenere un corretto equilibrio tra un atteggiamento iperprotettivo- che spinge la mamma a prendere in braccio il piccolo al primo accenno di pianto- e un eccessiva rigidità che induce i genitori a pretendere, a fini educativi che, sin dai primissimi mesi di vita, il bebè si abitui a stare da solo.
Entrambi questi comportamenti rischiano di attivare un legame di attaccamento squilibrato in cui, da un lato, al piccolo non è dato modo di individuare gli strumenti per auto consolarsi e quindi conquistare progressivamente un po’ di autonomia rispetto la figura materna, dall’altro, proprio l’insicurezza prodotta da un modo di fare meno empatico e più distaccato, produce una crescente dipendenza nel bebè, e di conseguenza un aumento della richiesta di attenzione, che tende a trascinarsi negli anni.
Se ogni mamma partisse dalla consapevolezza che tutto questo richiama una componente naturale di ogni bambino, forse imparerebbe, fin da subito, a decodificare certe richieste del piccolo seguendo il corretto vocabolario per sintonizzarsi con i suoi bisogni, senza preoccuparsi di “detti popolari” o di pareri di altre persone che raccomandano di non viziare alle braccia o giudicano quello che facciamo.
Sapere e conoscere certe cose, di permette di certo di poter scegliere più sensatamente come gestire il pianto del nostro piccolino.”
Per appuntamenti con la dottoressa Francesca Santarelli, o info, potete visitare il sito Internet del suo studio: www.studiosantarellidecarolis.com