Oggi vi do un po’ di numeri.
L’Italia è sul podio dei paesi con il minor tasso di mortalità dei bambini sotto i 5 anni che è inferiore a quello medio europeo e a quello degli Usa. Ma i bambini che nascono nel nostro paese da donne straniere rischiano più degli altri di non farcela.
Il tasso di mortalità tra i bambini residenti italiani (2,9 per 1.000 nati vivi), infatti, è più basso di quello dei bimbi residenti stranieri (4,3).
Perché?
Questo divario percentuale è in parte spiegato dal minor ricorso all’aborto terapeutico (cioè dopo 90 giorni dal concepimento) fra le straniere (l’1,5% sul totale aborti) rispetto alle italiane (4%).
Le straniere partoriscono più bambini con malformazioni, soprattutto a livello del sistema cardiocircolatorio, che oggi, grazie ai progressi della medicina, riescono a sopravvivere nel primo mese, ma spesso, non oltre.
Se alla fine dell”800 i bambini morivano principalmente a causa di malattie infettive, oggi il 72% dei decessi è dovuto a condizioni legate alla nascita (48%) e a malformazioni congenite (24%).
In Italia, l’85% dei decessi sotto i 5 anni avviene nel primo anno di vita e la metà delle morti si concentra nei primi sette giorni.
Che dire?
In questi giorni ho notato che uno degli argomenti di dialogo più acceso è l’aborto.
In questo articolo si parla di aborto terapeutico, che è ben diverso da quello volontario.
In entrambi i casi, però, si tratta di atti dolorosi, di decisioni molto difficili da prendere, che lasciano il segno se non nel corpo, sicuramente nell’anima e per tutta la vita.
Detto che sono felice del dato principale, ossia che viviamo in un Paese dove la natalità è tra le più sicure del mondo.
Mi chiedo e vi chiedo: se si è certi che il piccolo che si porta in grembo non potrà sopravvivere, ha senso metterlo al mondo? Non è forse una tortura o un dolore ancora più grande?