Una mia amica, tempo fa, mi raccontò che quando andò in un orfanotrofio dell’Europa dell’Est, rimase impressionata da una scena: i bambini non piangevano, non chiedevano nulla, perché sapevano già che difficilmente sarebbero stati accontentati. Sembravano tutti super educati, ma avevano negli occhi un velo di tristezza profonda.
Fino ad allora non avevo mai pensato che anche i bambini piccoli o neonati potessero essere tristi. Che potessero provare profondamente questa emozione.
Invece è così, anche i neonati possono provare tristezza.
Oggi affrontiamo questo argomento con la nostra psicologa amica, la dottoressa Francesca Santarelli:
“Care mamme,
eccoci al nuovo appuntamento con le emozioni dei bebè. Questa settimana parliamo del disgusto e della tristezza.
DISGUSTO
Fin dai primi giorni, il bimbo rifiuta una tettarella non gradita o la lascia cadere di bocca.
La tipica espressione con la lingua estroflessa e l’eredità di un riflesso fisiologico che serve a espellere la sostanza sgradita. L’espressione di disgusto diventa più frequente nello svezzamento, quando il bambino allena la propria percezione e impara a discernere ciò che gradisce e ciò che non gli piace.
Le ricerche ci dicono che il sapore dolce è l’unico che pare gradito in modo innato nell’uomo e che tutti i bambini trovano piacevole, fin dalla vita intrauterina (come testimoniano esperimenti sul liquido amniotico).
I bambini rifiutano invece, l’acido e l’amaro e reagiscono in modo neutro davanti al salato.
Ecco perché è importante proporre al piccolo diversi sapori, senza forzarlo con cibi che risultano sgraditi.
Anche se la predilezione per il dolce è innata, il gusto si può allenare: una molteplicità di stimoli gli permette di formare il proprio gusto, evitando l’abuso sia di zucchero che di sale.
TRISTEZZA
Se è vero che nella maggior parte dei bambini il pianto comunica un disagio transitorio, è anche vero che i neonati possono, in condizioni estreme, manifestare tristezza, come testimoniano rivelazioni compiute nei primi del 900 negli orfanotrofi.
La tristezza subentra quando i bisogni del neonato vengono frustrati in modo sistematico: l’espressione di questo stato d’animo non è il pianto, che indica comunque la convinzione di poter ottenere una risposta, ma il ritiro del bambino in se stesso.
Anche in assenza di un espressione facciale codificata, i bambini molto piccoli sono in grado di esprimere tristezza. I neonati di 2 mesi cercano di richiamare l’attenzione della madre se questa si immobilizza e, in caso di insuccesso, si girano dall’altra parte e restano in quella postura anche se la mamma torna occuparsi di loro.
Ma questo sentimento non è solo autoreferenziale: i neonati di 3 giorni, se ascoltano il pianto di altri bambini, si agitano corrugando la fronte e scoppiando a piangere a loro volta.
Poi dagli 8 mesi, il bambino capisce che se lui è triste, la madre prova a consolarlo.
Il consiglio per mamma e papà è il seguente. Ben prima di 9 mesi, età che in passato si riteneva coincidere con la consapevolezza della “permanenza dell’oggetto”, il bimbo è in grado di comprendere che, quando la mamma si allontana, non è scomparsa per sempre.
E dunque può essere allenato, con delicatezza, all’attesa prima di vedere esauditi alcuni desideri.
Essere consapevoli delle percezioni e della vita psichica di un neonato non significa sentirsi in colpa se ci si allontana per pochi minuti per rispondere al telefono….anzi è bene che i genitori permettono a un bambino di sperimentare con gradualità, spazi di separazione.”
Per appuntamenti con la dottoressa Francesca Santarelli, o info, potete visitare il sito Internet del suo studio: www.studiosantarellidecarolis.com