Cominciamo dal venerdì
Poco prima di pranzo mi squilla il cellulare. Leggo sul dispaly: “Scuola materna”
Oh, oh! Quando arrivano le chiamate dalla scuola fuori orario… non sono mai belle notizie.
Faccio un sospiro e rispondo: “Pronto?”
E dall’altra parte: “Ciao Maria, sono la maestra di Marco, il bambino giocando si è infilato una perlina nell’orecchio”.
Marco? Non ha mai fatto nulla del genere! Lui è quel bambino che non ha mai messo nulla in bocca neppure da neonato!
Mollo tutto e mi precipito a scuola. Cerco di capire.
“Marco sei sicuro che la perlina sia ancora nell’orecchio?”
E lui: “No”.
A occhio nudo non si vedeva nulla.
“Marco ti fa male?”
E lui: “No”.
Nell’incertezza ho deciso di portarlo comunque al pronto soccorso.
La perlina c’era. Trasparente e in profondità, ben nascosta.
Per semplificarmi la vita mi hanno detto che poiché in quel pronto soccorso non c’era l’otorino non potevano intervenire. Sigh! Mi hanno mandata in un altro pronto soccorso, in un altro paese.
Direi che nella sfortuna, il piccolo è stato moooolto fortunato: la perlina era di quelle schiacciate, non tonde, si era fermata ad un nonnulla dal timpano, ma non l’aveva sfiorato.
Con un sondino e infinita maestria l’otorino è riuscito a sfilare il corpo estraneo.
Ora quella perlina è gelosamente conservata a casa. Penso che la incornicerò. Queste esperienze non vanno dimenticate!
Il sabato
Sabato avevo in programma una fuga dalla famiglia per partecipare al “Social Family Day”, un momento di incontro tra le mamme blogger.
Mi ero accreditata oltre un mese fa.
Ci tenevo tantissimo a partecipare.
Ma mio marito, reduce da una settimana piuttosto pesante, era abbastanza stanco e provato. Direi, poeticamente, “alla frutta”!
Come potevo mollarlo con due piccole pesti?
Mi ha detto più volte, con una faccia quasi stravolta: “Vai, rilassati almeno tu. Noi ce la caveremo!”
E intanto Marco e Luca demolivano casa!
Non me la son sentita. Sono rimasta con loro.
Ma non ero molto di compagnia. Ero piuttosto nera di umore. Triste. Delusa.
Dopo pranzo, dopo aver messo a dormire marito e figli, non riuscivo a chiudere occhio.
Ero arrabbiata. Arrabbiata con me, perché non riesco a fare mai nulla di quel che desidero.
Arrabbiata con questa vita frenetica, dove anche fare una doccia è una conquista.
Arrabbiata con il mondo.
Sono uscita. Volevo fare quattro passi. Andare a prendere un caffè, comprare il pane e scaricare un po’ di quell’ansia negativa che avevo addosso.
Sono arrivata dal panettiere. Non c’era nessuno e ho cominciato a scambiare quattro chiacchiere con la mia amica che lavora lì, anche lei in preda alle sue paturnie.
Dopo un po’ è arrivato un signore. Un omone grande e grosso con una bimba su una specie di passeggino gigante.
Aveva l’aspetto di un papà distrutto, con una grande voglia di parlare e di sfogarsi.
Lui che in casa deve recitare il ruolo dell’ottimista, dell’uomo forte, della colonna portante.
Lui, che invece, dentro è logorato e che ha tanta voglia di urlare e sbandierare ai quattro venti la sua disperazione.
Mi ha raccontato la sua storia.
La storia di una coppia felice, di una famiglia felice con due bimbe stupende fino ad un anno fa.
Due piccole pesti vivaci, dolci e allegre. Due forze della natura, che ora la malattia gli sta portando via.
Entrambe le figlie sono affette da una malattia genetica simile alla Sla.
Loro, i genitori, sono portatori sani. Ma non lo sapevano. Non lo potevano neppure immaginare. Nessuno in famiglia ha mai avuto patologie simili.
La sfiga di una coppia che si accorge di un dramma durante una vacanza.
La corsa nei vari ospedali per ricevere, dopo infiniti consulti, la stessa notizia: per la prima bambina non c’è più nulla da fare. Quella terribile malattia se la porterà via.
Per la seconda bimba, che ha spento da pochissimo la sua prima candelina, si possono fare dei tentativi. Sperimentazione. Ma almeno c’è speranza.
Due figlie su due.
Volevo fare la forte.
Ma non c’è lo fatta.
Sono stata due ore in compagnia di quella bellissima bambina. Credetemi, è veramente bella.
Due occhioni grandi, immensi, neri. Le ciglia così lunghe che facevano anche il riccio all’insù.
Due ore. Sono bastate due ore per affezionarmi a lei. Non riuscivo a staccarmi.
Adorava la coccole. L’ho inondata di carezze.
Adorava essere scarrozzata su e giù per il portico. Non mi sono fermata un attimo.
Dopo due ore l’ho salutata e sono andata via.
Ho fatto appena in tempo a svoltare l’angolo e le lacrime hanno riempito i miei occhi. Non ce l’ho fatta a trattenermi.
Ho pianto a dirotto.
Come può il destino essere così crudele.
Come può la sfiga accanirsi così contro una famiglia.
Come può il Buon Dio togliere a una mamma e a un papà due figlie su due!
Come si può sopravvivere a tanto dolore.
Non so dove questi genitori stiano prendendo tutta quella forza. Io non ce la farei a sopportare quel supplizio.
Sono tornata a casa.
I miei uomini si erano appena svegliati.
Li ho abbracciati tutti e tre. Le mie paturnie mi sono sembrate infinite sciocchezze.
Sono trascorsi due giorni. E ho ancora quegli occhi meravigliosi, neri, grandi, sempre impressi nella mia mente. E spero per lei.
Anzi per loro!