“Mia mamma mi ha insegnato che ci sono due cose che non vanno mai chieste: “Quanti anni hai?” e “quanto guadagni?”.
A mia figlia spiegherò che c’è una terza cosa che non si deve domandare: “A quando un bambino?”. Perché quel punto di domanda, spesso, rischia di trasformarsi in una sciabola che trafigge il costato – anzi, l’utero – di chi dovrebbe rispondere. Perché dietro a quel banale interrogativo buttato lì per fare due chiacchiere da corridoio ci possono essere anni di dolore, di tentativi andati a vuoto, di speranze che naufragano ogni 28 giorni e che ti trascinano giù, in fondo, nel labirinto della disperazione. Storie di cicogne che vorresti spennare vive e far divorare da un avvoltoio così, giusto perché capiscano quale è il logorio che tu hai dentro dopo lunghe e vane ricerche. Storie di tube chiuse, di insufficienza ovarica, di endometriosi o cicli anovulatori, tanto per citarne alcune. Referti che sembrano condanne definitive: come nel caso di Giulia, 36 anni, bergamasca, sposata da sei anni con Keith e insieme a lui da 14, tra Nottingham e un paesello ai piedi delle Prealpi Orobie. Un’unione felice, non fosse per due piccoli particolari: una doppia diagnosi di sterilità, maschile e femminile. Eppure oggi Giulia è la felice mamma di Gaia, 2 anni e 3 mesi e di un altro bimbo che nascerà a fine ottobre.
Nel suo caso non è servito aspettare l’atterraggio di una cicogna o frugare sotto le foglie di un cavolo: no, a Giulia – che molti conosceranno come Sfolli, dal nome del suo blog (SfollicolatamenteUnoNessunoCentomila ) – i bambini li ha portati la fecondazione in vitro, altresì nota come FIVET. Un cammino tortuoso e difficile, emotivamente ed economicamente, come ci racconta in questa intervista.
Cosa significa essere costantemente bombardati da domande riguardanti i figli, quando si sa di non poterne avere?
“La mia fortuna è stata che in quegli anni vivevo in Inghilterra e lavoravo in un ambiente universitario, per certi versi ovattato: i miei colleghi erano proiettati sulla carriera e ai figli ci si pensava molto più in là dei 30 anni. La questione si presentava, però, ogni volta che tornavo in Italia in vacanza: capivo che i miei genitori impazzivano dalla voglia di avere un nipotino e, al contempo, il senso di colpa mi attanagliava perché sapevo che per me e mio marito sarebbe stato difficile, sebbene in quel momento si sapesse soltanto del suo problema, la sindrome di Klineferter, che comporta una totale azoospermia”.
Poi è arrivata anche la diagnosi relativa alla tua infertilità.
“Volevamo provare ad avere un bambino e, consci del problema di “dear husband” (così lo chiama nel suo blog, ndr), ci siamo immediatamente rivolti a una clinica specializzata in PMA (procreazione medicalmente assistita) a Londra. Mancava una settimana al mio 32esimo compleanno ed ecco la mazzata: la mia riserva ovarica era praticamente nulla”.
A quel punto intraprendete il cammino della FIVET.
“I medici erano stati chiari: avevamo una possibilità di successo intorno al 5-10%. In un primo momento avevamo pensato all’adozione, ma poi mi sono detta che dovevo darmi una chance, ricorrendo però a misure forti. Abbiamo usato le mie uova: al secondo tentativo sono rimasta incinta di Gaia, tra lo stupore dei luminari della clinica. Del resto la fecondazione in vitro è una scienza recente, con margini di fallibilità anche nelle previsioni: il primo bimbo è nato nel 1978”.
Durante questa fase della FIVET c’è stato qualcosa che ti ha fatto soffrire?
“In Regno Unito lo Stato ti finanzia la FIVET analizzando tutta una serie di parametri relativi alla sua possibilità di riuscita: be’, la mia contea mi negò il sostegno economico. Una doccia fredda perché significava che per loro ero un caso senza speranze. Per fortuna vivevo a mezzo miglio da un’altra contea, con parametri più flessibili: ripresentai la domanda e venne accettata”.
Quale è stato l’iter della tua FIVET?
“In Inghilterra si muove tutto piuttosto in fretta: si inizia sottoponendosi a una lunga serie di esami (gratuiti) in laparoscopia ginecologica, per verificare eventuali tube chiuse o endometriosi e via dicendo. Dopo cinque mesi è partita la seconda fase, parecchio costosa perché lo Stato mi ha dato circa 5000 sterline per pagare le “pere” di ormoni che mi dovevo iniettare e il seme. Nel mio caso è stato necessario ricorrere a una seconda Fivet perché nascesse Gaia: ho atteso quattro mesi e poi, grazie all’aiuto economico dei miei genitori – lo Stato non ci avrebbe più sovvenzionati – ho iniziato una seconda “raccolta delle uova”. La cosa buffa è che è coincisa con il periodo di Pasqua (per quanto riguarda la situazione italiana, Giulia rimanda a questo link: http://scienzaesalute.blogosfere.it/2014/01/i-costi-della-fivet-le-percentuali-di-successo-e-il-protocollo-per-accedere.html))”.
Qualche mese fa hai iniziato nuovamente il lungo iter della Fivet perché desideravi una seconda maternità.
“Avevamo congelato una blastocisti e abbiamo deciso di riprovarci, ma non è andata bene. Ci sono rimasta molto male perché io mi ero convinta che quelle mie poche uova, quelle che avevano fatto nascere Gaia, fossero un po’ magiche. Invece ho dovuto tirare una riga e fare punto e a capo. E pensa che il test di gravidanza all’inizio era positivo, salvo poi rivelarsi falso: forse era troppo presto. È che io, così come molte donne nelle mie condizioni, sono quasi ossessionata dallo “stickare” tutti i giorni o fare le beta in laboratorio ogni mattina. Avrei potuto perseverare con le mie uova, ma sapevo che sarebbe stato più complicato: ho tre anni in più rispetto alla scorsa raccolta e, per sottopormi all’intero trattamento, avrei dovuto nuovamente trasferirmi da Bergamo in Inghilterra con tutta la famiglia. Così siamo passati alla doppia donazione eterologa: molto costosa, perché stiamo parlando di 12mila euro. Infatti esiste un vero e proprio turismo procreativo di coppie italiane che vanno in Repubblica Ceca o a Cipro per pagare meno”.
Visti i costi, non sei stata tentata anche tu da nazioni in cui la FIVET è più abbordabile?
“No, perché in Inghilterra esistono rigore e tutele nei confronti di chi dona e di chi riceve. Ogni donatore viene sottoposto a esami minuziosi, fisici e psicologici, e deve rispondere a un questionario con domande di molteplice natura in cui è tenuto a dichiarare il vero, pena l’essere legalmente perseguibile. Inoltre il donatore lascia un “goodwill message” a cui il bambino potrà accedere compiuti i 18 anni, età in cui potrà anche conoscere l’identità del genitore biologico e consultare un registro in cui sono annotati i nomi di eventuali fratelli genetici nati con la Fivet. Aggiungo, inoltre, che in UK chiunque doni sperma o ovuli ottiene un compenso esiguo (50 sterline per l’uomo, 750 per la donna), quindi difficilmente lo si fa per soldi. Navigando in rete sono capitata in un forum di donatrici e mi ha colpito che fossero tutte quante già mamme, spinte dal voler aiutare altre donne a conoscere le gioie della maternità”.
Posto che portare in pancia 9 mesi un esserino è il legame più viscerale che esista: Gaia è biologicamente tua figlia, mentre il bimbo che nascerà non lo è. Ti sei mai chiesta se li amerai alla stessa maniera?
“Sì, prima di intraprendere questa strada mi sono posta il problema e sai cosa mi sono riposta? Che ogni mamma ama diversamente un figlio dall’altro, ma al tempo stesso li ama tutti con la stessa intensità. Quello che invece mi preoccupa, a volte, è che un domani il bimbo in arrivo mi rinfacci la mia scelta”.
Racconterai ai tuoi figli di come sono stati concepiti?
“Certamente: è troppo importante per la creazione e la definizione della loro identità. Tanto più che si tratta di una verità in cui potrebbero imbattersi durante l’adolescenza, venendo totalmente scombussolati. Abbiamo seguito i consigli degli psicologici e fin da ora raccontiamo a Gaia la sua storia attraverso un libricino che abbiamo comprato in Inghilterra intitolato “The pea that was me”: ci sono il disegnino del donatore, del semino e via dicendo. E, per personalizzarlo ulteriormente, abbiamo incollato qui e là le foto dei nostri visi. Gaia deve crescere consapevole del modo in cui è stata concepita, perché quella è la sua normalità”.
Nessuna delle persone che ti stanno intorno ha fatto commenti sgradevoli?
“Sono circondata da persone intelligenti. Poi certo, sul blog c’è che mi ha accusato – anonimamente – di essere egoista; gli stessi che se poi osi lamentarti per la mancanza di sonno o i capricci ti dicono che hai voluto la bicicletta e devi pedalare, senza possibilità di dire “ah”. Però c’è un aneddoto divertente: quando ero incinta di Gaia siamo tornati a vivere nel paesino in provincia di Bergamo in cui sono cresciuta. Qui l’usanza vuole che il quotidiano locale, “L’Eco di Bergamo”, di proprietà della curia, pubblichi i nomi dei primi nati dell’anno e lei doveva nascere proprio a cavallo tra il 31 dicembre e il 1° gennaio. Ecco, io amavo ripetere che avrebbero scritto: “È nata Gaia, la figlia del diavolo!”.
Come hai vissuto la vicenda dello scambio di embrioni al Pertini di Roma?
“Malissimo. Ed è una coincidenza che non mi torna: come è possibile che appena qualche giorno prima fosse caduto il divieto di eterologia in Italia e, di lì a poco, questo pasticcio? Anche perché, a livello mediatico, le due notizie hanno avuto trattamenti speculari. Credo ci sia sotto qualcosa”.
Aprire un blog sull’infertilità è più una valvola di sfogo o un modo per solidarizzare con persone nella stessa condizione?
“Attraverso il blog mi sono imbattuta in realtà persino più complicate della mia. È nato non appena ho scoperto di essere sterile: volevo che la gente sapesse che è raro, ma può succedere che a 32 anni tu possa essere troppo vecchia per concepire un figlio. E, poi, desideravo far conoscere il mio mondo, togliendo il preconcetto che le coppie che ricorrono alla Fivet siano fenomeni da baraccone. Con gli anni è diventato un punto d’incontro e si sono create splendide amicizie”.
Cosa consigli a una donna che scopre di essere sterile?
“Per prima cosa di prendere consapevolezza di loro stesse: bisogna togliersi dalla testa il senso di inadeguatezza che si ha, pensando invece che nonostante esistano dei limiti, possono anche essere spostati. L’importante è fare squadra con il proprio partner. Ma, soprattutto, consiglio loro di provare ad avere un figlio attraverso la Fivet: perché i miracoli, a volte, si avverano”.